Nella primavera del 2011 mi trovavo a Berlino per un convegno frequentato da banchieri, e in quella sede mi capitò di parlare con un alto dirigente di una di quelle organizzazioni internazionali non governative che si occupano delle sorti dei vari Paesi, solitamente ben informato sulla situazione dell’Italia. A lui chiesi se sapesse qualcosa dell’introduzione di una tassa patrimoniale in Italia. La risposta secca e quasi insolentita fu che il tema “non era assolutamente all’ordine del giorno”. Poche settimane dopo, ai primi di luglio, il Governo Berlusconi varò una manovra nella quale introdusse un’imposta di bollo proporzionale sui depositi, che prima della fine del 2011 il Governo Monti estese a quasi tutte le attività finanziarie, anticipando anche l’entrata in vigore della nuova tassa sugli immobili, l’Imu, comprendendo nell’imponibile anche le prime case. Negli stessi provvedimenti vennero introdotte le imposte sulle attività finanziarie (Ivafe) e sugli immobili all’estero (Ivie). In pochi mesi insomma ci siamo ritrovati con quasi tutti i nostri patrimoni tassati. E dire che il tema non era all’ordine del giorno.
“Pianifica pensando al peggio, spera per il meglio”, dice il saggio. Dopo l’haircut di più del 70% ai titoli di Stato greci dello scorso anno e il prelievo forzoso sull’eccedenza oltre i 100mila euro dei depositi nelle banche cipriote, i risparmiatori percepiscono come meno remota l’ipotesi di una nuova offensiva pubblica sui patrimoni privati. Anche perché nel frattempo non si ferma l’espansione del debito italiano, nonostante i sacrifici e l’avanzo primario. Ridurre la spesa pubblica sarebbe bellissimo, ma pare che ci sia riuscita solo la compianta Margaret Thatcher nel Regno Unito negli anni 80, a prezzo di una impopolarità che sarebbe insostenibile dalle nostre parti. Sicchè la scorciatoia dell’aumento delle entrate è stata a oggi perseguita trasversalmente sia a livello nazionale (Berlusconi, Monti) che a quello locale (Pizzarotti), perché rappresenta la “linea di minore resistenza”. D’altra parte vari partiti – da Scelta Civica al Pd. – non sono stati ostili a una maggiore imposizione patrimoniale nei loro programmi elettorali, mentre altri – Sel e Rivoluzione Civile – sono dichiaratamente a favore. I mercati nel frattempo attribuiscono una rischiosità relativamente non elevata ai bond domestici, come se scontassero che - alla bisogna - un Governo qualsiasi, comunque piegato al totem della stabilità, abbia sempre a disposizione l’arma definitiva: un’imposta patrimoniale, o comunque una misura coattiva che colpisca una o più voci della ricchezza privata. Senza scomodare i cupi ricordi della manovra Amato del luglio 1992 (il cui autore potrebbe tornare ora a fare il primo ministro, a voi questo non dice niente?), vari studi più o meno interessati (da Commerzbank alla Bce) enfatizzano – basandosi su dati vecchi e distorti – l’”immorale” ricchezza privata degli italiani. Come se qualcuno stesse già indicando la direzione da prendere. Mentre varie voci nell’Europa che dà la linea (da Angela Merkel a Olli Rehn e Jeroen Dijsselbloem) stanno fissando il principio che i salvataggi di banche e Stati non debbano essere gratis per i residenti dei Paesi interessati.
Le ipotesi di un provvedimento straordinario sui patrimoni, o di un aumento strutturale delle imposte già in vigore non sono da escludere, e ovviamente sono meno remote di una assai improbabile situazione di insolvenza conclamata della Repubblica Italiana. Nel senso che prima di arrivare sull’orlo del precipizio, è chiaro che un prelievo senza precedenti rappresenterebbe un tentativo (estremo?) per prevenire il default. Nel caso, però, è impossibile stabilire ora quale possa essere la base imponibile. Nel 1992 furono i depositi e gli immobili (a valori catastali), con un’aliquota dello 0,6%. L’anno scorso ci fu l’una tantum sui capitali scudati. Nella disastrata Grecia nessun depositante o detentore di obbligazioni bancarie ha per adesso subìto prelievi forzosi o haircut. Dopo Cipro, ora sui depositi sembra fissata a livello Ue una soglia garantita “esentasse” a 100mila euro. In Svizzera esiste una modesta imposta annua sulla sostanza (ad aliquota variabile e in media pari allo 0,25-0,4%), che grava su tutto il patrimonio. In Francia c’è un’imposta sulle grandi fortune. Monti nella conferenza stampa salva-Italia del 4 dicembre 2011 aveva scartato proposte analoghe per l’impossibilità di verificare in modo attendibile e centralizzato tutti gli averi posseduti in Italia da ogni residente. Occorre distinguere tra misure fiscali che potrebbero riguardare tutti i patrimoni (in Italia e all’estero) posseduti dai soggetti residenti in Italia e misure coattive che hanno riguardato solo certi attivi come quelle greche e cipriote (che hanno colpito tutti i detentori di titoli di Stato e di depositi superiori ai 100mila euro, indipendentemente dal Paese di residenza degli stessi). Nel primo caso è chiaro che il fatto di spostare all’estero degli attivi finanziari non basterebbe a eludere l’imposta, perché il trasferimento sarebbe tracciato e soggetto a monitoraggio (quadro RW del Modello Unico). In una situazione come quella italiana, la vera iniquità di una misura del genere – e forse la sua stessa improponibilità - consisterebbe nel lasciare indenni ancora una volta i capitali clandestinamente detenuti all’estero, gli immobili abusivi oppure i patrimoni – all’estero o in Italia - segregati in trust più o meno legittimi.
(*) Pubblicato sul Sole-24 Ore del 21 aprile 2013
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