lunedì 10 settembre 2012

"Se l'Italia tornasse alla Lira rimpiageremmo la benzina a 2 euro"

http://www.loccidentale.it/node/118247

Intervista a Carlo Stagnaro di 

Edoardo Ferrazzani






Carlo Stagnaro è un liberista, un economista della (ahinoi) sotto rappresentata schiera di liberisti italiani che dicendo da tempo che i livelli di spesa pubblica in Italia, ma più in generale in Europa, non erano mai stati sostenibili e che prima o poi avremmo pagato un caro prezzo. La crisi finanziaria e fiscale del debito sovrano è sotto i nostri occhi e purtroppo dà loro ragione.
Ingegnere, economista e responsabile dell’Area Energia dell’Istituto Bruno Leoni, Stagnaro ha le idee molto chiare su come portare l’Italia fuori dalla crisi. Con lui parliamo di Europa, dell’azione autunnale del governo Monti e delle difficoltà che vive il sistema produttivo italiano in questo ciclo recessivo.
Sul passaggio impervio che vive l’Euro, Stagnaro fa notare che l’onda anti-euro di certi politici, anche italiani, è un gioco allo scarica barile delle classi dirigenti nazionali che non intendono assumere la responsabilità dei propri errori passati. E a chi chiede un ritorno alla Lire italiana, Stagnaro dice: “No faccio dell’euro un feticcio, ma sarebbe un modo di monetizzare il debito, una specie di default mascherato”.
E’ notizia di ieri che François Hollande e Angela Merkel intendano riesumare il motore franco-tedesco per ridare slancio al processo d’integrazione europea e rassicurare i mercati sulla solidità dell’euro. Ma i malumori anti-euro crescono ovunque, anche in Germania. Crede che la crisi in atto sia di natura esiziale per il progetto della moneta unica oppure siamo in presenza di una dolorosa crisi di crescita? 
Non credo che la crisi sia necessariamente fatale per l'euro. Anzi, per certi versi la crisi è segno del fatto che l'euro funziona e costringe i paesi che vi aderiscono a rispettare una disciplina finanziaria che precedentemente era sconosciuta a molti di loro. Il malumore anti-euro è spesso figlio di una sorta di "blame game" dei politici europei, che scaricano sulla moneta unica la colpa di un fallimento che invece è tutto delle nostre classe dirigenti: l'incapacità di garantire nei rispettivi paesi un pareggio strutturale di bilancio e la tendenza ad alimentare una spesa pubblica incontrollata, finanziata in buona parte a debito.
Anche in Italia vi sono noti esponenti politici – Antonio Martino, solo per citarne uno - che si sono dichiarati a favore di un ritorno alla Lira. Lei ritiene che sia percorribile un ritorno alla valuta nazionale italiana? Quali sarebbero i costi che dovremmo sostenere per percorrere questa via?
Non credo sia possibile ma soprattutto non credo sia utile, in questo momento. Non faccio dell'euro un feticcio ma bisogna essere pragmatici: anche al di là delle intenzioni di chi sostiene queste tesi, abbandonare l'euro vorrebbe dire abbracciare svalutare e, realisticamente, adottare una politica monetaria più lassista e funzionale agli interessi politici del governo pro tempore (cioè monetizzare il debito ovvero andare attraverso una forma di default mascherato). Questo per un paese come il nostro avrebbe costi enormi: pensiamo al costo del debito che schizzerebbe alle stelle, o al costo dei beni importati (il petrolio per esempio, che ci farebbe rimpiangere la benzina a 2 euro).
La crisi del debito sovrano che ha funto da detonatore alla recessione in corso ha mostrato che in Europa v’è un significativo problema di mole di spesa pubblica, spesso inutile, inefficiente e dannosa, soprattutto quando un alto livello di pressione fiscale s’incrocia con un ciclo economico recessivo come quello in corso in molte zone dell’area euro. Secondo lei la crisi in corso ridarà vita alla cultura liberale classica del “meno Stato, meno tasse”? Se ciò non avverrà, cosa ci dobbiamo aspettare in futuro?
L'Europa per uscire dalla crisi ha un'unica strada, cioè ridurre la spesa pubblica. In questa fase non è tanto una questione di cultura quanto una questione di necessità. Le conseguenze dell'operazione dipendono molto da quanto e come si taglia, ma che si debba farlo almeno un po' è, credo, indiscutibile e chiaro a tutti (inclusi quelli che opportunisticamente vi si oppongono). Sarebbe utile che questo intervento necessario fosse metabolizzato culturalmente, ma non è affatto detto e se accadrà dipende molto dalla maturità del dibattito politico nei vari paesi.
Si parla molto in Italia delle misure che il governo Monti metterà in campo il prossimo Autunno per il rush finale prima delle elezioni del 2013. Come noto saranno implementate delle liberalizzazioni nel settore postale, culturale e sanitario e nuovi investimenti in infrastrutture. Inoltre si parla anche di alleggerimenti fiscali per famiglie e di qualche efficientizzazione su PA e giustizia. Ritiene che siano misure anti-cicliche sufficienti oppure si tratta di atti slogan?
Se si tratti di slogan o no lo sapremo quando vedremo i provvedimenti. Se saranno sufficientemente incisivi, queste misure possono seriamente contribuire a rilanciare lo sviluppo, sia in senso stretto, sia cambiando la percezione dell'Italia e rendendoci un paese che il resto del mondo vede come potenziale teatro di crescita. Tuttavia, in nessun modo tali misure sono sostitutive di un intervento serio sulla spesa (tagli) e sul debito (attraverso le privatizzazioni).
Parliamo un po’ d’impresa. Il sistema produttivo italiano vive una fase difficilissima. Oltre al nodo congiunturale che determina una crescente difficoltà nell’accesso al credito, le aziende italiane hanno due problemi che vengono da lontano: in primis una cultura d’impresa e legislazioni del lavoro e tributarie che non permettono la crescita dimensionale delle imprese, fatto che le rende facile preda di M&A da parte di imprese estere (i noti ‘saldi italiani’); in secondo luogo v’è un ritardo nella creazione di efficienti cluster produttivi (impresa-università-infrastrutture-sicurezza) che fanno oggi la fortuna del sistema produttivo tedesco. Cosa deve (e non deve) fare la mano pubblica per favorire il superamento di queste criticità?
La mano pubblica deve ritirarsi e rattrappirsi. Molti dei nostri problemi, incluso il nanismo industriale, sono figli di una regolamentazione eccessiva e cattiva, che rende razionale non crescere oltre un certo livello. L'articolo 18 è parte di questo fenomeno ma non lo esaurisce. Pensiamo al ruolo dell'evasione: se il modello di business di molte imprese è basato anche sull'evasione, difficilmente esse possono crescere, perché crescendo diventano visibili e devono strutturarsi e ciò rende complicato mantenere una parte dei loro ricavi sommersa. Ma l'evasione è a sua volta conseguenza di un fisco troppo oneroso e troppo complicato. Lo stesso vale per lo scarso rispetto di molte norme e regolamenti: per essere davvero rispettati, dovrebbero anzitutto essere rispettabili...
Come noto la pressione fiscale effettiva italiana raggiunge in molti casi il 55%. Quale sarebbe secondo lei una via realistica d’abbattimento della pressione fiscale in Italia, tenuto conto dell’altissimo livello di debito pubblico italiano?
La riduzione della pressione fiscale deve essere preceduta da una più che proporzionale riduzione della spesa pubblica. Deve inoltre andare di pari passo a una semplificazione del sistema, con la drastica riduzione delle eccezioni (deduzioni e detrazioni) che consentirebbe un intervento ancora più forte sulle aliquote delle varie imposte.
Un’ultima domanda sul nodo infrastrutturale. Uno degli aspetti limitanti dell’Europa mediterranea rispetto all’Europa del Nord è il ritardo infrastrutturale (porti, ponti, autostrade, canali navigabili). Non pensa che le nazioni mediterranee in difficoltà – Italia, Spagna, Portogallo e Grecia – dovrebbero dare vita a un comune sforzo infrastrutturale per rilanciare lo sviluppo economico? Puzza un po’ di proposta keynesiana ma nuove infrastrutture non arrecano mai danno, ne converrà?
Le infrastrutture non servono in assoluto: servono quando sono utili. Generalmente, lo Stato finanzia cattedrali nel deserto. L'Italia dovrebbe lasciare ai privati il compito di investire in infrastrutture, scegliendo quali siano prioritarie, e concentrarsi sull'infrastruttura più importante: creare un quadro giuridico stabile e favorevole agli investimento.

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